Dettati ortografici sul tema temporali estivi e grandine e l’arcobaleno.
Il lampo che illumina il cielo finisce in uno schianto sul tronco di un cipresso, e fortissimo rintrona. La grandine precipita fitta: sui tetti e sulle piazze danzano granelli e perle gelate. E il vento volteggia e rigira nell’aria bruna e fosca le povere foglie strappate dai rami. Quando la bufera si quieta le anatre corrono sull’aia e guazzano nelle pozze d’acqua, ove si mescolano granelli pallidi e foglie tritate. La pace ritorna: gli usci e le finestre si schiudono e la lucertolina si stende sulla pietra a prendere il sole che, rosso di vergogna, volge al tramonto. (A. Paluschi)
Nell’aria pende la tempesta; osservate il paesaggio vegetale in quei momenti di calma minacciosa che ne precedono lo scoppio. Dalle zolle erbose su per i cespugli degli alberi, in largo giro, sta come se fosse scolpito: ciascuna forma vegetale nell’imminenza della lotta, si fa quasi pensosa restando protesa verso la luce residua. Il vento irrompe: le erbe hanno un largo brivido, gli steli si piegano in moto ondoso, i cespugli si convellono, le foglie tremano, svolazzano, frullano sui piccioli tesi, volgendosi di tratto in tratto in un unico verso che ci dà l’immagine della superficie vibrante dell’acqua al colpo del maestrale; i rami bassi degli alberi si piegano verso terra, i sovrapposti sussultano, ed il fusto solenne oscilla. Il vento ha una pausa: dalle erbe ai culmi, ai fusti è una pronta riconquista degli atteggiamenti di quiete… Se sopraggiunge un imperversare di pioggia, l’urto delle gocce crea per ciascuna apparenza vegetale nuovi rapidi moti di difesa. Al cessare della tempesta si scoprono qua e là, per terra, sparse foglie strappate dal vento, battute dalla pioggia e qualche divelto fusticino di pianta erbacea; ma il paesaggio vegetale appare ricomposto nelle sue linee e con una rinnovata, gemmante veste di bellezza. (A. Anile)
Subito dopo la grandine biancheggiò saltellante per terra, risuonando come sassi sulle tegole, tambureggiando le foglie, formando strati sull’erba, sul cortile. Tutti gli alberi, le viti, le piante dell’orto, le acacie della strada si tenevano fermi, spauriti, oppressi dalla martellante caduta. I contadini guardavano e non fiatavano, gli occhi dilatati, inebetiti, stringendosi le braccia con le mani, guardavano e sembrava non volessero credere. Le viti si scarnivano di foglie sotto i loro occhi, lo strato bianco cresceva; passò una decina di minuti e poi la pioggia prese a mischiarsi alla grandine e questa a scemare. Più tardi, quando fu possibile uscire a camminare verso i campi, subito si intese un odore di foglie cadute come per un prematuro autunno. (G. Comisso)
Le nuvole grige e nere si urtano, si pigiano spinte del vento, nascondono il sole, oscurano il cielo. Ci son ancora, qua e là, lembi d’azzurro, ma vanno facendosi sempre più piccoli, sempre più radi. Ecco un lampo: guizza, abbaglia, sembra incendi il cielo. Poi scoppia il tuono. Un tonfo forte, un brontolio lungo. I passeri si rifugiano sotto i tegoli, le rondini volano basse, senza stridi. Cadono le prime gocce d’acqua, si fanno fitte, sembrano grossi aghi lucenti. Poi la pioggia scroscia impetuosa.
Poco dopo mezzogiorno il sole cominciò ad essere meno limpido. Non c’erano nuvole ancora; ma proprio nel mezzo del cielo, il turchino cominciò a diventare sempre più smorto; fin che all’improvviso vi nacque una nuvola grigia che si faceva sempre più scura. Poi altre nuvole, dello stesso colore e più bianche, si accostarono, insieme. Quando tutte furono chiuse l’una con l’altra, un lampo abbagliò gli occhi e fece luccicare le ruote del carro, gli aratri e tutti gli strumenti di ferro sull’aia. Allora i tuoni cominciarono, come se avessero dovuto schiantare anche le case, e le prime gocciole, quasi bollenti, si sentirono picchiettare sulle tegole e sui mattoni. Dopo un poco l’acqua venne giù sempre più grossa, e il temporale durò quasi tre ore. (F. Tozzi)
Dopo il temporale il sole era tornato, e i pioppi parevano più verdi: avevano sentito quella rinfrescata e ne godevano. Lungo qualche filare erano nati i girasoli, grandi e gialli, che tentennavano un poco quando passava il vento. Tra i grani, dove era più umido, erano nati il ciano coi fiori azzurri; le campanelle bianche, venate di rosso chiaro, che s’attorcigliavano fin sulle spighe, e la borrana con le stelline celesti. I ragni avevano teso tanti fili, che quando brillavano parevano un’altra messe. (F. Tozzi)
Dopo la grandinata, quando fu possibile riuscire a camminare verso i campi, subito si intese un odor di foglie cadute come per un prematuro autunno. I contadini prima ancora di vedere realmente i danni causati ripetevano sommessi: “Siamo rovinati”. E veramente la campagna aveva un aspetto lugubre: il verde prima traboccante non esisteva più. Il granoturco abbattuto, stracciato nelle sue larghe foglie, i campi di foraggio calpestati, come da una torma di cavalli, le pesche rosee mordicchiate, l’uva scoppiata nei suoi grani, e foglie e piante, per terra, mischiate al fango. (G. Comisso)
Venne un temporale che flagellò la campagna e rose le strade, per fortuna senza grandine. Lo passammo in casa, da una finestra all’altra, fra donne e bambine che correvano e gemevano sotto i lampi. Il crepitio dei sarmenti nel camino sbatteva in cucina una luce rossastra, che dava riflessi fantastici ai festoni di carta colorata, sulla batteria di rame, alle stampe della Madonna, e al ramulivo appeso al muro. Tremavano i vetri. Qualcuno, di sopra, urlava di fermare le finestre… Venne un momento di strana solitudine, quasi di pace e di silenzio, nel diluvio. Mi fermai sotto la scala dove dal lucernario accecato volavano gocciole e odor d’acqua. Si sentiva la massa dell’acqua, quasi solida, cadere e muggire… Finì com’era cominciato, d’un tratto. Quando uscimmo sul terrazzo, dappertutto in paese si sentiva vociare, il cemento seminato di foglie aveva già chiazze d’asciutto. Tirava un vento di vallata, schiumoso, e le nuvole galoppavano… M’investì un sentore folle di fradicio, di frasche, di fiori schiacciati, un odore acre, quasi salso, di fulmine e di radici. (C. Pavese)
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